Quest’estate mi ha appassionato e colpito il vivace racconto di Vittorio Longhi nel suo Il colore del nome. Storia della mia famiglia. Cent’anni di razzismo coloniale e identità negate. Dopo aver a lungo rimosso le sue origini in parte eritree, Longhi torna in Africa prima come giornalista e poi per ricostruire la genealogia familiare, soprattutto grazie alla rete e ai social network.
Già a Lampedusa infatti Longhi aveva incontrato molti eritrei, sopravvissuti alla traversata o inghiottiti dal mare. Un giorno poi, nel mezzo del deserto giordano dove si trova per l’ennesima inchiesta sui traffici legati all’immigrazione, gli arriva un messaggio sul cellulare da una sconosciuta che dice di essere sua cugina. Dapprima cerca di ignorare questo contatto ma poi non potrà sfuggirvi e, sulle tracce del padre che non vede da quasi vent’anni, comincerà a fare i conti col suo passato.
E non solo, sarà la storia del colonialismo italiano e delle relazioni tra colonizzatori e colonizzati ad intrecciarsi alla sua storia familiare, a partire dalla vicenda del bisnonno Giacomo, arrivato nella colonia “primogenita” nel 1890 con il regio esercito. Come molti italiani, Giacomo ha due figli con una giovanissima eritrea, li riconosce, com’era possibile all’epoca, ma poi li abbandona. Dei due “meticci” uno è il nonno Vittorio, che sarà assassinato ad Asmara da eritrei favorevoli all’annessione con l’Etiopia, con l’accusa di collaborazionismo con gli italiani e perché attivista meticcio. Dopo la sua morte, la famiglia vive anni difficili e uno dei figli, Pietro (padre dell’autore) si allontana e si stabilisce infine in Italia, dove si sposa con una donna italiana e ha un figlio, che chiama come suo padre, Vittorio (l’autore), lungo una linea di continuità tra generazioni. Ma poi Pietro comincia a sparire, e sulle sue tracce si dipanerà tutto il racconto di Longhi.
Nei giorni in cui leggevo questo libro ho scoperto che anche mio nonno è stato in colonia più a lungo di quanto non sapessi già. Quando ho lavorato alla tesi di dottorato erano emerse dagli archivi familiari solo un paio di fotografie del nonno, in posa accanto ad un camion, circondato da un gruppo di ragazzini scalzi e svestiti, sullo sfondo un paesaggio desertico presumibilmente libico, visto che in famiglia si sapeva che laggiù era stato negli anni Trenta, a lavorare come rappresentante di un’imprecisata ditta di Orbetello, città dove era nato e viveva allora. Ma in quel momento non c’erano in casa mia la voglia e il tempo di ricostruire questa memoria familiare e non erano emersi altri documenti o ricordi.
Recentemente invece il mio babbo, nel rispolverare vari cassetti e incartamenti dimenticati, ha rinvenuto un grande foglio rosa, un po’ spiegazzato e sbiadito, in cui campeggia sulla prima facciata un grande stemma del Regio esercito italiano: il “Foglio di congedo illimitato” di “Stefani Mario – Soldato”, rilasciato dal Distretto di leva di Tripoli e datato 12 settembre 1933, e che così recita: “Durante il tempo passato nel R. Corpo di truppe coloniali della Cirenaica ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà ed onore”.
Il nonno, quindi, non era stato in Libia solo come civile, a fare il camionista come molti degli italiani di cui ho letto i diari e le memorie conservate all’Archivio di Pieve S. Stefano, ma aveva anche fatto la leva nelle truppe coloniali. E non solo: nell’ultima pagina del Foglio di congedo si legge che per Esigenza A.O. (Africa orientale) era stato richiamato alle armi il 18 settembre del 1935 e rinviato in congedo illimitato il 1° luglio 1936: era cioè stato richiamato per la guerra d’Etiopia. Una bella sorpresa, visto che proprio delle storie dei militari in Etiopia mi sono occupata per diversi anni!
Mario, nato nel 1911, in quegli anni era poco più che ventenne: chissà se davvero servì “con fedeltà ed onore” la patria, come si afferma nel suo Foglio di congedo? C’è una foto in cui è ritratto con la divisa da autiere, sullo sfondo una palma, a conferma della sua inclinazione alla guida evidentemente, visto che in Libia ci era arrivato come camionista. Mi chiedo, mentre guidava sarà stato incuriosito dalla natura e dai luoghi? Che tipo di contatti avrà avuto con la popolazione? Avrà conosciuto qualche donna? O forse semplicemente non vedeva l’ora di tornarsene a casa? E in Etiopia, se poi ci sarà andato, che cosa avrà fatto? Avrà partecipato davvero alla guerra?
Nulla ha raccontato, pare, della sua vita in Africa, o quanto meno nulla che sia giunto alle orecchie dei suoi figli. Era molto schivo? Voleva rimuovere questo capitolo della sua vita? Si vergognava di qualcosa e quindi preferiva non parlarne? Purtroppo, a parte una manciata di fotografie e il rinvenuto Foglio di congedo, non mi resta nulla su cui costruire una pista di ricerca. Che peccato che né mio padre né mio zio abbiano ricordi di qualche suo racconto di questa esperienza, pare non la menzionasse praticamente mai.
Ma sto provando a trovare qualche indizio, magari uno spiraglio potrebbe aprirsi. Però al momento i miei primi tentativi di ricostruire altre notizie sul nonno in colonia si sono arenati di fronte alle risposte degli archivi di stato, dove dovrebbe essere conservato il suo foglio matricolare. A Grosseto (la provincia di nascita) non risulta niente a suo nome, mentre a Firenze (dove poi ha vissuto) è iniziata la digitalizzazione di questi materiali e quindi al momento non si possono ricercare…
TO BE CONTINUED, si spera… Qualcun@ ha suggerimenti su come potrei proseguire quest’indagine?